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Abbiamo di recente ospitato una intervista al mio amico Enrico Guffanti sulla riabilitazione respiratoria. Enrico, pneumologo oggi in pensione attiva, si occupa da molti decenni di malattie respiratorie croniche e crede nel coinvolgimento di pazienti e familiari nei percorsi di cura ed è su questo che oggi lo intervistiamo. Che della cronicità bisogna occuparsi in modo nuovo tutti lo dicono, ma oggi vediamo nella pratica cosa si può fare e che magari qualcuno già fa.

Enrico si parla spesso a proposito della presa in carico delle cronicità di coinvolgimento diretto dei pazienti. Partiamo dal glossario: che differenza vedi in base alla tua esperienza tra empowerment, engagement e (già che ci siamo) patient advocacy? Mi scuso coi lettori, ma siccome questi termini tutti li usano cerchiamo di capire cosa vogliono dire.

“Nothing about me without me” : nulla che mi riguardi può essere fatto senza il mio coinvolgimento.  Questa affermazione in inglese sintetizza molto bene i concetti che voglio esprimere e che stanno alla base della tua domanda. Negli ultimi anni, soprattutto per la crescente prevalenza delle malattie croniche, sono stati studiati e presentati modelli di cura  in cui la persona viene proposta come soggetto attivo ed “esperto” all’interno del   processo clinico-assistenziale. Ciò è avvenuto perché le persone esprimono giustamente il desiderio di avere un ruolo più attivo in tutte le fasi del percorso sanitario e di conoscere meglio la malattia o le malattie da cui sono affetti e tutte le possibili opzioni di trattamento, i relativi vantaggi e i rischi. Da qui la comparsa e l’uso di termini non proprio abituali in sanità per definire concetti che forse del tutto nuovi non sono. Vediamo quindi di conoscerli meglio.

In sanità con il termine empowerment si vuole intendere un processo  di accrescimento delle competenze necessarie “affinché i cittadini, i pazienti e i professionisti siano attivamente coinvolti - come singoli, come organizzazione e come comunità - nelle decisioni che riguardano la propria salute e la pianificazione, gestione e valutazione dei servizi per la salute”, questo al fine di incrementare i valori di efficacia delle cure, di equità nell’uso delle risorse e la sostenibilità dei sistemi sanitari.

Sottolineerei la necessità che l’empowerment riguardi i cittadini, i pazienti e i professionisti e non solo i pazienti, se si vuole che si abbiano ricadute positive sul sistema. Quello di cui stiamo parlando è un approccio che semplicisticamente e sbrigativamente viene spesso assimilato all’istruire i pazienti in relazione agli aspetti medici della loro malattia, ma questa  visione è assolutamente insufficiente a rappresentare l’ empowerment. Potenzialmente, infatti, siamo tutti pazienti che a diverse età e a diversi livelli necessitano di attenzioni e cure. La Medicina preventiva è pur sempre una Medicina e le vaccinazioni, la dieta, lo stile di vita, la gestione dello stress, la bonifica ambientale, le norme di sicurezza sul lavoro riguardano tutti, anche chi non si ritiene (ancora) un paziente.

L’ empowerment ci mette nella condizione obbligata di parlare di persone e non di pazienti, ma le persone hanno una componente fisica e una componente emotiva. Studi recenti utilizzando l’ intelligenza artificiale hanno ben evidenziato come le persone affette da patologie croniche lamentino numerosi bisogni insoddisfatti  nel percorso della loro malattia (Unmet Needs: Hearing the Challenges of Chronic Patients with Artficial Intelligence   NEJM Catalyst 2019).  Di questi “unmet needs” o bisogni insoddisfatti la maggioranza riguarda più la sfera emotiva delle persone che quella tipicamente medica (6 su 8): le persone chiedono di comprendere come vivere con la malattia, come gestirla nelle sue inevitabili evoluzioni negative, il significato dei test e delle terapie eseguite e chiedono di condividere con altre persone come loro i dubbi e le incertezze generati dalla malattia.  L’empowerment sulle malattie, sulle loro cause, sugli aspetti gestionali non solo tecnico-pratici e sulle loro conseguenze psico-fisico-sociali è pertanto indispensabile, ma non può bastare.  Occorre fare un ulteriore passo in avanti e tendere ad attuare un pieno coinvolgimento attivo della persona/paziente ovvero il suo engagement .

L’engagement è un processo complesso che risulta dalla combinazione di diverse dimensioni e da fattori di natura individuale, relazionale, organizzativa, sociale, economica e politica che connotano il contesto di vita della persona. L’engagement, nell’ambito clinico assistenziale della cronicità, è un concetto generale “che riguarda e definisce le  modalità di relazione che una persona  con un problema di salute/prevenzione, assistenza e/o cura  intrattiene con la sua condizione clinica, il suo caregiver familiare , il professionista sanitario e il team assistenziale nel suo complesso, il contesto organizzativo, il sistema socio-sanitario e il sistema sociale allargato, durante il proprio percorso di malattia. L’ engagement diviene così  funzione della capacità, della volontà e della scelta graduale delle persone di assumere un ruolo proattivo nella gestione della propria salute. L’engagement  nel contesto clinico assistenziale deve essere considerato un “concetto-ombrello inclusivo e sovraordinato rispetto ad altri concetti quali: aderenza, compliance, empowerment , alfabetizzazione sanitaria, etc.

Persone sempre più “empowerizzate”, quindi in possesso di competenze e di esperienze consolidate, possono e devono essere coinvolte anche nei percorsi decisionali di livello politico-organizzativo che riguardano la salute: viene così a prendere il suo giusto valore il ruolo delle Associazioni di Pazienti o meglio di Persone portatrici di Malattie. Oggi le Associazioni non devono essere vissute solo come portavoci di bisogni, ma come partecipanti attive nelle scelte di politica sanitaria. Nel mondo anglosassone, dove l’abitudine ad agire per gruppi d’interesse e associazioni è più radicata, questo ha portato allo sviluppo della patient advocacy, una modalità di partecipazione dei pazienti a tutto ciò che riguarda la propria malattia, dalla ricerca farmacologica a quella clinica sino alla scelta delle terapie, passando per l’impegno in prima persona nei gruppi di supporto. Nel campo della salute, “l’advocacy consiste nell’uso strategico di informazioni e altre risorse (economiche, politiche, ecc.) per modificare decisioni politiche e comportamenti collettivi ed individuali allo scopo di migliorare la salute di singoli o comunità”.

 Talora le associazioni o i pazienti si fanno rappresentare da persone che hanno capacita ed esperienza per sostenere nei confronti dei diversi stakeholder i diritti di una più ampia popolazione di pazienti con una specifica malattia (sono questi gli Advocat).

In concreto come si può tradurre nella pratica clinica questo approccio che dovrebbe mettere al centro il paziente? Riferiamolo alla presa in carico della BPCO.

Esiste una relazione circolare e virtuosa tra la conoscenza, fondamentale per arrivare a una decisione consapevole ed “esperta”, l’empowerment e l’engagement dei pazienti.

Se ci pensiamo bene anche il concetto di mettere il paziente al centro è superato: la persona/paziente è la ragione per cui vengono istituiti i sistemi sanitari che sono fatti di persone e strutture. Il paziente si relaziona con gli operatori sanitari di qualsiasi professionalità e dovrebbe poterlo fare da una condizione di non inferiorità che può essere raggiunta solo attraverso una conoscenza adeguata di come è costituito e di come funziona il sistema sanitario e di tutto quello che concerne il proprio percorso di malattia.

Qualcuno (e cioè le associazioni dei pazienti) ha affermato “I medici dovrebbero scendere dai loro piedestalli ma i pazienti devono smettere di inginocchiarsi”.  Questo significa che i medici e più in generale gli operatori sanitari vengono a volte vissuti come erogatori di “verità” quasi indiscutibili. Senza partecipazione e condivisione non si ottengono buoni risultati. Il paziente non dovrebbe essere preso in carico ma coinvolto in un piano generale di gestione della propria malattia cronica che ad esempio nel caso della BPCO è assimilabile ad un viaggio colmo di ostacoli, di durata ignota ma generalmente prolungata, a destinazione certa. Quindi è impensabile non concordare con lui e la sua famiglia le modalità del viaggio durante il quale avrà la tutela degli operatori sanitari in un sistema organizzato per ascoltare e soddisfare le sue necessità, limitare al minimo possibile i rischi e attrezzato per accoglierlo nelle sue strutture qualora si verificassero imprevisti “prevedibili”. 

Organizzativamente cosa serve per un percorso di coinvolgimento di questo tipo?

Innanzitutto, come è stato già ricordato, le persone e le loro famiglie devono volere  essere proattive in modo convinto nei confronti dell’ intero sistema. Percorsi di empowerment dovrebbero essere strutturati in qualsiasi ambito, territoriale o ospedaliero che sia. Devono essere coinvolti a pieno titolo anche i caregiver e le famiglie dei pazienti affetti da patologie croniche. Nell’ organizzare tali percorsi si deve cercare di essere esaustivi su tutto ciò che riguarda i bisogni dei pazienti e dei caregiver in relazione al percorso di malattia. Non possono perciò essere tralasciati quegli aspetti organizzativi che permettono ai pazienti di accedere il più semplicemente possibile ai servizi per attestazioni di invalidità, richieste di permessi o certificazioni, segnalazioni di disservizi ecc. Il processo di empowerment si può sviluppare su tre livelli: individuale, organizzativo e di comunità. Le iniziative di empowerment si collocano lungo un continuum, che dall’empowerment al livello individuale arriva al livello di comunità.

Anche e soprattutto per la realizzazione dell’engagement sono necessari la sensibilizzazione e lo sviluppo di competenze da parte dei professionisti della salute e del sistema socio-sanitario. E’ certo che la crescita culturale dei professionisti, del team assistenziale e delle organizzazioni sanitarie verso il concetto di engagement sono da considerarsi prerequisiti fondamentali per qualsiasi programma di promozione del coinvolgimento attivo della persona con malattia cronica e del suo caregiver.  Per un’efficace promozione dell’engagement diviene determinante all’ interno dell’organizzazione la presenza di un team assistenziale multiprofessionale/multidisciplinare e il pieno coinvolgimento della persona e del suo caregiver ovvero all’interno della clinical governance, ovvero di chi organizza e governa i percorsi assistenziali che lo riguardano.

Per sua natura l’engagement basandosi su un sistema relazionale non può essere “limitato” a singole componenti del sistema, ma deve riguardare l’ intero sistema: persona con malattia cronica, caregiver, professionisti sanitari, organizzazione sanitaria, associazioni di pazienti e decisori politici. Si deve infatti tenere presente che cultura organizzativa e caratteristiche strutturali e processuali dei modelli di gestione del sistema socio-sanitario possono favorire o ostacolare l’engagement. Vi è quindi la necessità di preparare il personale sanitario e anche quello amministrativo a questo approccio indubbiamente non abituale: rapporto fra pari all’ interno di un sistema nato e organizzato per risolvere problemi complessi e non per aggravarli

La tecnologia può essere di aiuto?

Si deve innanzitutto capire quale tecnologia può essere utilizzata per favorire il pieno coinvolgimento attivo delle persone con malattia cronica. Riferendoci in particolare alle Information Communication Tecnologies, ICT  (i sistemi integrati di telecomunicazione), non vi è a mio parere alcun dubbio sulla loro utilità: se pensiamo che uno dei già citati “unmet needs” era quello di poter mettere in comunicazione  i pazienti e i loro caregiver per condividere le esperienze possiamo facilmente immaginare come la disponibilità via web di  chat ad hoc possano renderne immediatamente possibile la realizzazione.

Ma nei sistemi più evoluti stanno emergendo molte iniziative per rendere praticamente realizzabili i concetti di cui stiamo discutendo. Ricorderò i modelli di ricerca guidata dal paziente basata sulle reti (networks) di pazienti che utilizzano piattaforme tecnologiche per condividere i dati relativi alla malattia da cui sono affetti e le terapie che stanno assumendo. Citerò come esempio un network di pazienti fondato 8 anni fa negli USA : PatientsLikeMe. Questo modello è basato sul coinvolgimento attivo di pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica ( qui si conferma il ruolo fondamentale del caregiver!) che condividono tramite piattaforma online i loro sintomi, i loro trattamenti e gli esiti sanitari. Tramite l’organizzazione di PatientsLikeMe i dati così condivisi vengono trasformati in dati singoli sulla malattia (milioni) che vengono successivamente aggregati al fine di produrre nuove informazioni utili ad ottenere nuove conoscenze che vengono nuovamente ricondivise fra gli associati.

Altro esempio di come l’ICT possa aiutare i nostri sforzi per una sanità attivamente condivisa è rappresentato dalle App che vengono già utilizzate per condurre studi clinici osservazionali. Citerò brevemente l’app Asthma Health Application che ha consentito la realizzazione dell’Asthma Health Study tramite l’utilizzo dello Smartphone. Più di 7500 pazienti affetti da asma bronchiale sono stati arruolati: la piattaforma ha consentito di raccogliere una serie di dati in 6 mesi che riguardano tanto la sfera individuale quanto quella ambientale. Ovviamente tali dati devono essere sottoposti a verifiche e validazioni assolutamente rigorose che ne sanciscano l’utilità per il paziente, gli operatori sanitari e il sistema.

La telemedicina va nella direzione opposta al coinvolgimento del paziente o ne è uno strumento avanzato?

La risposta per quanto mi riguarda è semplice: è uno strumento avanzato. Si devono però fare delle precisazioni perché il termine telemedicina si è prestato negli anni a diverse definizioni e interpretazioni pratiche. Se parliamo di assistenza da remoto ci rendiamo conto che i sistemi di gestione delle malattie croniche hanno oggi la fortuna di poter disporre di numerosi e più o meno sofisticati (non oso pensare in futuro!) strumenti per tenere sotto osservazione pazienti a diversa complessità clinica. Se mi limito alla BPCO/Insufficienza respiratoria basterà ricordare la disponibilità di sensoristica indossabile per ottenere una serie di parametri vitali o quella di software in grado di rilevare dati durante la ventilazione non invasiva o invasiva che consentono di monitorare la sincronia fra paziente e apparecchiatura per garantire l’efficacia della terapia . Più recentemente sono aumentati in letteratura i report relativi alla possibilità di effettuare riabilitazione domiciliare controllata da remoto che se validati e applicati su vasta scala possono modificare significativamente l’assetto organizzativo della riabilitazione.

Non possiamo però dimenticare che in un’ottica di engagement anche questa tecnologia deve essere opportunamente condivisa con i pazienti e le loro famiglie tanto più quanto maggiore è la complessità della tecnologia stessa. Non sono rare le segnalazioni di non accettazione di queste tecnologie vissute come una forma di violazione della privacy. Infine va ribadito con forza che la tecnologia non deve mai essere interpretata come sostitutiva del rapporto fra operatori sanitari e pazienti/famiglie o paradossalmente come una delega totale di responsabilità alle famiglie.

Sul piano scientifico c’è prova dei migliori esiti in un approccio centrato sul paziente?

Inizierò con il ricordare che tanto l’empowerment che l’engagement possono essere misurati utilizzando scale apposite che si trovano facilmente in letteratura. Tutto ciò che è misurabile quindi può essere valutato più correttamente. In letteratura si trovano studi interessanti che hanno esplorato l’efficacia di nuovi modelli basati sull’empowerment. Citerò fra questi lo studio danese “ The Epital Care Model: A New Person-Centered Model of Technology-Enabled Integrated Care for People With Long Term Conditions” pubblicato su JMIR Res Protoc nel 2017.   A mio parere lo studio rappresenta un buon esempio di come sia possibile pensare a modelli di gestione condivisa efficaci e alternativi  delle patologie croniche. Anche in altri studi condotti su anziani con BPCO la realizzazione di un percorso di empowerment ha consentito iniziali incoraggianti risultati. Mi sembra però corretto affermare che per ottenere dati indiscutibili dal punto di vista dell’evidence based medicine c'è ancora molta strada da percorrere.

Ancora più difficile proprio per la sua natura  è parlare di risultati evidence based per l’ engagement. Nonostante ciò  mi fa piacere ricordare  fra gli esempi di empowerment/engagement  il modello di valutazione degli interventi sanitari del National Institute for Health and Care Excellence, NICE  (qui trovate alcune informazioni al riguardo) che si avvale per le sue valutazioni e le sue decisioni delle informazioni fornite da  pazienti/caregiver in relazione a : 1. esiti dei pazienti che possano essere loro di aiuto; 2. impatto del trattamento su esiti, sintomi, funzionamento fisico e sociale, qualità della vita, impatto sulla famiglia, amici e attività lavorativa; 3. facilità d’uso, effetti collaterali; 4. preferenze dei pazienti; 5. sottogruppi che potrebbero avere più/meno benefici e sfide rispetto alle prospettive di professionisti/ricercatori; 6. aree che necessitano di ulteriori ricerche. Noi tutti dovremmo utilizzare NICE come uno dei principali punti di riferimento nella professione.

Quali sono le figure professionali che servono per un lavoro di questo tipo?

Mi riesce difficile rispondere compiutamente a questa domanda. Abbiamo detto prima che occorre un team multiprofessionale e multidisciplinare per ottenere risultati soddisfacenti. Innanzitutto va aumentato il grado di fiducia delle persone con malattie croniche (non guariranno mai!) verso l’intero sistema per poterle convincere che non sono “una specie protetta” , peraltro spesso protetta anche in modo non soddisfacente, ma sono partner attivi del sistema. Quali sono le figure che potrebbero meglio trasmettere questi concetti non solo ai pazienti ma, come abbiamo più volte ricordato, all’ intero sistema? Non può essere un compito delegato totalmente ai professionisti sanitari anche se il loro ruolo è evidentemente decisivo. Si tratta di un approccio culturalmente diverso che mi induce a pensare che andrebbe rivisto anche il concetto di paziente al centro del sistema così come quello di presa in carico: se tutte le componenti sono coinvolte pariteticamente non è una questione di presa in carico e il centro del sistema non può essere una delle sue componenti.  

Questo approccio è tipico del territorio o coinvolge anche l’ospedale?

Come da altri più qualificati di me è stato detto, mentre l’ospedale è un concetto secolare, ben concreto per la popolazione con e senza malattia manifesta, il territorio è un concetto ancora da definire compiutamente soprattutto se incomprensibilmente si tende a ridimensionare (o a non sviluppare, che è la stessa cosa) il ruolo del Medico di Medicina Generale. Lo sforzo massimo per la gestione della cronicità deve invece essere quello di definire operativamente compiti e funzioni del territorio e di renderli concreti. Se i pazienti hanno partecipato attivamente a questa riorganizzazione sanno a chi e dove rivolgersi per affrontare e risolvere molti problemi connessi alla malattia cronica senza ricorrere alle strutture ospedaliere che rimangono riferimenti indispensabili per le emergenze e le problematiche complesse non affrontabili diversamente. Ciò non significa che i processi di empowerment ed engagement non riguardino l’ospedale. Il sistema in toto deve essere interessato da questo tipo di organizzazione basata sul coinvolgimento attivo di tutte le sue componenti. Ribadisco che non ci può essere engagement se anche una sola parte del sistema si pone in un ruolo diverso da quello di partner paritetico.

Grazie Enrico. Chi è arrivato fin qui non se ne sarà pentito!

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