×

Messaggio

EU e-Privacy Directive

Questo sito utilizza cookies tecnici e sono inviati cookies di terze parti per gestire i login, la navigazione e altre funzioni. Cliccando 'Accetto' permetti l'uso dei cookie, cliccando 'Rifiuto' nessun cookies verrà installato, ma le funzionalità del sito saranno ridotte. Nell'informativa estesa puoi trovare ulteriori informazioni riguardo l'uso dei cookies di terze parti e la loro disabilitazione. Continuando nella navigazione accetti l'uso dei cookies.

Visualizza la ns. Informativa Estesa.

Visualizza la normativa europea sulla Privacy.

View GDPR Documents

Hai rifiutato i cookies. Questa decisione è reversibile.
Scrivi un commento
Print Friendly, PDF & Email

Lo dico subito: questo mio post è un po' forte.
Alla base ci sono però riflessioni che sto facendo da tanti anni sul ruolo di tecnici e politici in sanità e mi sembra questa l'occasione buona per condividerle.

La shoa ebraica (progettata e realizzata - non da sola - dalla nazione guida della cultura e della scienza mondiali e sulla base di una errata e folle lettura del pensiero darwiniano) ha prodotto un profondo trauma nel pensiero contemporaneo, trauma che investe pienamente anche le professioni sanitarie.

Sembrerà un collegamento un po' tortuoso, ma forse non lo è più di tanto. Vediamo. 

Uno dei momenti chiave della riflessione su questo evento è rappresentato dal processo ad Eichmann (diversi film propongono le registrazioni del processo, tra questi: Uno specialista - Ritratto di un criminale moderno - 1999.) e in particolare dalla riflessione di Hannah Arendt nel libro La banalità del male. La Arendt, che aveva seguito il processo al criminale nazista in Israele, notava come non era possibile risolvere il mistero di un evento così estremo catalogando come mostri gli esecutori, poichè Eichmann si presentava come una persona normale. 

Stanley Milgram (forse più famoso per i “sei gradi separazione”) intrigato dalla riflessione della Aredt volle sottoporla a verifica sperimentale e ideò un esperimento sull’obbedienza (illustrato in dettaglio ne libro: Obbedienza all’autorità). Dimostrò che persone comuni erano in grado di compiere atti definibili come di tortura sino al punto di poter determinare la morte di una persona (un attore…). 

La migliore sintesi che illustra il meccanismo che può innescarsi e facilitare la perdita di consapevolezza del confine tra il bene e il male mi sembra, tra le tante, quelle offerta da Zygmunt Bauman (nel volume Modernità e olocausto): "il primo passo è dato dalla minuziosa divisione funzionale del lavoro [...]; il secondo processo è dato dalla sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale".

Simili risultati emersero da un altro studio realizzato da Philip Zimbardo: l'esperimento carcerario di Stanford, illustrato in dettaglio nel volume: L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Molto interessante è notare, in questo caso, come l'autore si accorge del male che sta facendo ai ragazzi reclutati per l'esperimento: una collega in vista a cui lui illustra le dinamiche che sta osservando lo aggredisce e gli fa capire che quelle persone stanno soffrendo!

 

Cosa c'entra tutto questo in un Blog sulla sanità?

Robert J. Lifton ha scritto un libro sconvolgente (I medici nazisti), che racconta la vita quotidiana dei medici che hanno gestito circa la metà dello sterminio ebraico (ma non solo ebraico, ma anche di zingari, omosessuali e oppositori politici, oltre che dei prigionieri dell'Armata rossa). Nel libro sono ricostruite le discussioni sui turni notturni nella banchina dove arrivavano i treni e il loro lavoro medico di selezione di chi era destinato alla morte immediata e chi ad una morte dopo lavoro. Medici, ovvero operatori sanitari come noi, persone normali... 

Rimosso è anche il programma di sterminio dei malati cronici e mentali, avviato, con solerte collaborazione medica, ma poi sospeso per le proteste della popolazione, che in questo caso ci furono...

La consapevolezza che metà della shoa sia stata supervisionata da sanitari mi (e spero ci) porta a riflettere sul fatto che quando si opera all'interno di organizzazioni complesse può sfuggire la dimensione morale delle nostre azioni (lasciando in evidenza solo la operatività tecnica) e quindi, naturalmente in proporzione al massimo male che possiamo commettere (dimettere un paziente che vive solo e resterà abbandonato nel letto di casa per giorni? lasciare in attesa di una telefonata per quasi due mesi un paziente che deve subire un complesso intervento?), poter fare, inconsapevolmente, del male.

L'esperimento di Zimbardo segnala l'importanza di promuovere momenti di revisione tra pari che possono consentirci di vedere veramente la nostra organizzazione, poichè col tempo smettiamo di guardarla con attenzione.

Questo rischio è tanto maggiore per chi opera lontano dalla trincea dell'assistenza e con scelte strategiche può innescare, inconsapevole e senza alcun riflesso di tipo morale (per i meccanismi sopra illustrati), danni alla salute (un esempio: non garantire le risorse insufficienti per la prevenzione). Per questo, é non solo importante, ma indispensabile scegliere i numeri importanti e coerenti con le finalità di salute del sistema e leggerli costantemente per sapere dove si sta andando in modo da correggere in tempo reale la rotta. Così da  non doverci poi (mi sento tra coloro che corrono questo rischio) giustificare con frasi che assomigliano un po' troppo a quelle dei  tempi della shoa "in fondo non si è mai ucciso nessuno e si stava solo redigendo un verbale...si eseguivano ordini... si coordinavano solo i treni...". Peccato che nel loro caso quei treni andassero ad Auschwitz.
Nel caso che ci riguarda: peccato che le nostre decisioni influiscano senza troppi gradi di separazione (altro che sei, vedi sopra) sulla salute dei nostri cittadini.

 

Devi fare login per poter postare un commento
Leggi il commneto... The comment will be refreshed after 00:00.
  • Questo commento non è stato pubblicato.
    Anna Duranti · 03/01/2018
    Grazie, articolo interessantissimo e pieno di spunti di riflessione, sulla responsabilità dell'individuo, sulla necessità di conoscere e misurare l'impatto del nostro lavoro. Ho visto tutti i filmati, scioccanti sicuramente, ma quello che mi ha più impressionata è il primo, sull'esperimento di Milgram, ho dovuto smettere di guardarlo, tanto era angosciante per me. Credo che sia per il fatto che quelle persone, i "teachers" erano persone come noi, normali: quanti di noi si sarebbero fermati?
  • Questo commento non è stato pubblicato.
    Roberto Amici · 30/11/2017
    Come non essere d’accordo con te, caro Remo? Come cittadino mi sono trovato ad assistere a sussiegosi dibattiti sui problemi dell’immigrazione, oppure a tavole rotonde in cui fior di “autorità” discettavano sulla insostenibilità della spesa per le pensioni o della sanità, oppure a talk-scio-cchezze in cui improvvisati “opinionisti” (una professione che deve essermi sfuggita quando ho fatto la scelta della facoltà universitaria) spiegavano come si debba interpretare il tema del terrorismo. Per non dire delle sceneggiate di non pochi politici che ci illustrano con sorprendente serietà come risolvere problemi da loro stessi creati. E da medico ho dovuto assistere non poche volte a decisioni assunte dai miei “superiori” che, del tutto prive di analisi preliminari, a corto di dati, indifferenti rispetto al problema delle risorse necessarie erano già in partenza del tutto incapaci di raggiungere l’obiettivo dichiarato. Che era naturalmente “a favore dei pazienti”. E la superficialità, la sciatteria, l’incompetenza generano danni. Invisibili nell’immediato, incalcolabili perché dispersi in un caos non decifrabile, ma gravissimi. Un esempio? Se riduco drasticamente la fornitura di pannoloni agli incontinenti cronici (“perché bisogna aumentare l’appropriatezza”) quante piaghe da decubito avrò prodotto? E quante complicanze anche gravi su pazienti debilitati? La riduzione delle prescrizioni inappropriate è un obiettivo anche ragionevole, ma ha bisogno di ben altro approccio organizzativo. Un altro esempio? Si riducono i posti letto per acuti. Un obiettivo che è finalizzato a ridurre la spesa e la cui ragionevolezza avrebbe bisogno di essere discussa (Francia e Germania hanno numeri di posti letto per acuti molto superiori al nostro). Ma sorvoliamo in questa sede sulla razionalità del provvedimento. Se contestualmente (in modo assolutamente sincronico!) non si adeguano i posti di accoglienza per pazienti che, alla dimissione, hanno bisogno ancora di una assistenza adeguata in ambiente protetto (cure intermedie ma non solo) si possono produrre vere tragedie: ricoveri prolungati in attesa di improbabili rapide sistemazioni post-ospedaliere e quindi carenza di posti liberi per altri pazienti, oppure dimissioni eccessivamente precoci e pericolose, nuovi ricoveri ravvicinati, richieste di prestazioni inappropriate compreso il ricorso al Pronto Soccorso; ma anche il peggioramento dei quadri clinici e l’estrema conseguenza che si può immaginare. Come fare per opporsi a tutto ciò, caro Remo? Come non occuparsi “solo dei treni”? Come non accettare che continui via via a realizzarsi una sanità in Italia accessibile solo a chi può permetterselo? Come non farsi travolgere dalla banalità del male? Come non essere, per il nostro silenzio, corresponsabili? Se non vogliamo imitare gli imbarazzanti opinionisti televisivi o gli spot di quelli che “tutto va bene” oppure “abbiamo già fatto” oppure “abbiamo già deliberato”, va detto che non ci sono soluzioni semplici. Sul piano individuale credo che ciascuno di noi debba non solo fare il proprio dovere, ma anche pretendere che il rigore sia alla base del comportamento anche di chi ci “comanda” (disciplina ed onore riguardano tutti indipendentemente dalle gerarchie); bisogna però anche avere il coraggio di dire chiaro e forte il proprio pensiero “di opposizione”. Con qualche rischio, certo. Ma il rischio sarà tanto minore quanti più saranno quelli capaci di “non far partire i treni”. Nessuna opposizione preconcetta, certo. Bisogna quindi leggere, studiare, informarsi, comprendere bene quando sia giusto “opporsi”. Ma sul piano collettivo non posso non rilevare che la classe dirigente spesso appare scomposta, arrogante, impreparata, legata a processi di natura clientelare-politica, emergente non da una severa selezione meritocratica: dalla appartenenza invece che dalla competenza. Di qui le decisioni grossolane, di qui l’assenza di una visione di lungo periodo, di qui la fascinazione per presunti guru della sanità, di qui l’incapacità di piani razionali e realizzabili, di qui l’assenza di progetti disegnati in modo rigoroso. Totale pessimismo dunque? No, caro Remo. Nella mia lunga attività di medico ho conosciuto e conosco un’infinità di persone colte, preparate, competenti, capaci e che dimostrano ogni giorno di saper fare e non solo parlare. Confido che, sebbene non in tempi brevissimi, a queste persone siano affidate le sorti della salute dei cittadini. E, naturalmente, che questi ultimi siano coinvolti sempre di più anche nei processi organizzativi.
Joomla SEF URLs by Artio