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Remo mi ha segnalato un articolo nel blog dell’Institute for Health Care Improvement dal titolo suggestivo e dal contenuto stimolante: Health care leaders: heroism is out, humility is in. Non credo serva la traduzione. Mi permetto un adattamento alla nostra realtà: se avete un ruolo importante nella gestione politica e tecnica della sanità siate umili. L’articolo è del direttore dell’Istituto e vale la pena di tradurlo (traduzione in corsivo):

Non è un segreto che sono tempi difficili per i leader in sanità (considero qui leader tutti coloro che hanno importanti ruoli progammatori e gestionali, dall’assessore, ai dirigenti ai vari livelli del Servizio Sanitario Regionale almeno fino ai direttori di dipartimento). In qualunque posto del mondo ci troviamo, abbiamo a che fare con una quantità di problemi – da quelli economici, a quelli politici, demografici e tecnologici- che, diciamocelo francamente, sono senza precedenti.
L’approccio tradizionale alla leadership non ci aiuta molto in questa situazione complessa. Il modo tradizionale di pensare porta i leader a immaginarsi come eroi che hanno bisogno di agire da soli per salvare la giornata.

Non condivido (per quel che conta nemmeno io). Nessun leader – non importa quanto bravo – ha tutte le risposte. Nessun leader che vuole creare soluzioni praticabili e sostenibili ed evitare di “ bruciarsi” può fare tutto da solo.

Al contrario, i leader debbono usare tutti gli strumenti che hanno a disposizione per farsi carico della complessità del sistema sanitario. Questo vuol dire coinvolgere tutta la nostra organizzazione – e tutta la nostra comunità – nel cercare risposta ai problemi sempre più grossi di salute e di assistenza sanitaria con cui abbiamo a che fare oggi. La nostra organizzazione non farà alcun progresso verso un miglioramento della salute della popolazione, verso passaggio dai volumi ai valori, o verso una maggiore equità senza un significativo contributo delle persone che sono dentro e fuori il nostro sistema sanitario. I leader debbono accettare che non sanno tutto, debbono essere capaci di chiedere aiuto e debbono coinvolgere gli altri nelle azioni che mettono in campo.

Per fare questo un leader deve essere umile.

Chiedere aiuto in presenza di problemi difficili può portare a risultati sorprendenti. Le persone rispondono bene a questo atteggiamento che richiede di fare affermazioni del tipo:

• Io non ho tutte le risposte. Sai darmi una idea?
• Io non sono sicuro che questo sia l’approccio migliore. Che ne pensi?
• Ho qualche idea, ma non ho la prospettiva che hai tu sul problema.
• Sono curioso di sapere come ti regoleresti se fossi nelle mie scarpe.

Le persone apprezzano l’umiltà. Esse apprezzano il rispetto che il leader dimostra chiedendo il loro contributo.

Mi sembrano considerazioni utili per una riflessione di sistema. Umiltà in pratica vuol dire aprirsi al confronto in modo trasparente definendo obiettivi, fornendo dati, chiedendo proposte e discutendole nel merito. Se e quanto oggi si faccia così nel sistema sanitario delle Marche a livello regionale ed aziendale dovrebbe essere oggetto di riflessione importante.

PS Ho fatto leggere questa cosa a qualcuno che l’ha passata a qualcun altro che a sua volta ha trovato pertinente una citazione da Gramsci sul tema della leadership (che in Gramsci è il tema della “egemonia”). L’ho trovata anche io pertinente e significativa. Non è il linguaggio cui siamo più abituati (chi fa politica in realtà dovrebbe esserlo), ma le parole finali sul rapporto tra governanti e governati e tra dirigenti e diretti mi sono parse attualissime. Ed ecco la citazione:

"L’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente “sente”. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia piú sfrenati. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed esser appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il “sapere”; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporto di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (cosí detto centralismo organico).
Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita di insieme che solo è la forza sociale; si crea il “blocco storico”.

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