Quale ruolo per i Comitati di partecipazione delle Aziende sanitarie?
Alla fine della visita il dr. Rossi sentenzia: “Lei ha bisogno di un anticoagulante”.
E la dr.ssa Alessi, al momento della dimissione: “Fra 3 mesi faccia una radiografia di controllo del torace”.
E il direttore generale, illuminato a giorno davanti alla telecamera: “Stiamo per inaugurare un nuovo reparto”.
E il nuovo presidente appena insediatosi: “Razionalizzeremo senza ridurre i servizi, perché per noi il paziente è al centro del sistema”.
Che ruolo può avere il paziente/cittadino di fronte alle prescrizioni dei medici, spesso categoriche, oppure alle affermazioni, spesso non verificabili, di chi gestisce il sistema o ne disegna le strategie?
Certo, potrebbe fare delle domande.
“Perché mai devo prendere un anticoagulante, ci sono alternative, a quali disagi dovrò sottopormi?”
“Perché non prenota direttamente lei il luogo e l’ora della radiografia?”
“Quando sarà inaugurato il nuovo reparto e a quale bisogno di salute risponderà?”
“Quali indicatori, Presidente, potranno certificare che razionalizzando non si riducano servizi per bisogni reali?”
Assolutamente legittime sarebbero queste domande e doveroso sarebbe dare loro risposta ma l’esperienza quotidiana dimostra come ancora, sia nelle decisioni cliniche sia in quelle di politica sanitaria, il cittadino sia quasi sempre escluso da un coinvolgimento attivo.
Eppure il sistema sanitario “appartiene alla gente”, ai cittadini. E se ciò vale per il sistema sanitario inglese (NHS), è certo vero anche per quello italiano.
E, va aggiunto, questo sistema non è affatto gratuito: esso è pagato dai cittadini, almeno da quelli che pagano le tasse. Ed essi, appunto, ne sono i proprietari. Ma l’idea di una partecipazione attiva è un’utopia immaginifica e, come tale, irrealizzabile?
Certamente no.
Che sia realizzabile lo dimostrano innumerevoli azioni, esperienze, studi in molti Paesi.
Ad esempio in Canada, come si vede nella figura accanto. E, per chi lo volesse, il King’s Fund ha messo in rete un elenco di decine e decine di lavori che ne certificano la realizzabilità e, direi, la necessità.
E l’Italia? Sempre fra le ultime?
Non esattamente.
Il Ministero della salute e l’Istituto Superiore di sanità hanno prodotto documenti sul tema. Questo rappresentato in grafica è stato aggiornato poi nel 2008. Un tempo, quello trascorso da allora, che sarebbe stato sufficiente per passare dalle teorie alla pratica. Anche da noi.
E ci sono altri che hanno lavorato in Italia sul tema? Certo. Uno per tutti: e, come si vede in figura, assolutamente fra i più autorevoli: l’Istituto Mario Negri (Partecipasalute).
Dunque una massa di dottrina e di esperienze nazionali e internazionali (quelle presentate sono solo esempi) hanno dimostrato che la partecipazione dei cittadini è ampiamente matura per essere protagonista nella “policy” (programmazione, pianificazione), nella fase di “care” (gestione dei sistemi di cura) e nella “research” (ricerca).
E la Regione Marche?
Qualcosa di interessante è accaduto. La Legge regionale n. 13 del 2003 aveva previsto un impulso alla partecipazione (art. 24) dei cittadini. Ad essi, presenti nei Comitati di partecipazione delle Associazioni di volontariato, erano affidati i compiti di “contribuire alla programmazione, pianificazione socio-sanitaria regionale, aziendale e territoriale”, “svolgere attività di verifica e controllo sulla gestione”, “monitorare le condizioni di accesso e di fruibilità”, di avere il diritto di accesso ai dati e di interloquire sui sistemi di indicatori della qualità. Ottime premesse, forse anche dovute al tentativo di riequilibrare il sistema dell’Azienda Sanitaria Unica, nascente con quella Legge, che avrebbe accentrato in modo rigido finanziamento, strategie, decisioni. In realtà i Comitati hanno avuto vita asfittica, peso inconsistente, totale marginalizzazione.
Molte le ragioni del fallimento: certo in primo luogo la scarsa propensione della politica a considerare le persone cittadini consapevoli e competenti (un problema locale, ma anche nazionale); di qui la tendenza a scrivere norme più a fini propagandistici che prefigurandone la reale applicazione; forse anche la timidezza perdurante dei cittadini e della Associazioni di fronte al “potere costituito”. Ma (Delibera di Giunta Regionale - DGR - n.168/2015, recepita dal Consiglio nel Regolamento regionale n.6/2015) i Comitati di partecipazione dei cittadini, seppure con un irragionevole ritardo, hanno avuto una regolamentazione. Ed essa ri-attribuisce loro le medesime prerogative e gli stessi compiti che “recitava” la Legge n. 13 del 2003.
Come fare in modo che non si tratti solo di una “recita”?
In primo luogo la politica (per non rimanere nel vago: i partiti, i consiglieri regionali, i consiglieri comunali) deve accettare l’idea di non avere una delega assoluta, ottenuta una volta per tutte al momento del voto; i “managers” e i funzionari della Aziende che gestiscono la sanità devono accettare l’idea che la loro capacità possa/debba essere misurata sulla base dei servizi e dei bisogni reali cui è data risposta (accessibilità, fruibilità, appropriatezza, tempestività, sicurezza ecc.) e, ovviamente, non solo sul raggiungimento del mero equilibrio economico; gli operatori (medici e non) devono accettare l’idea che il paziente, l’assoluto protagonista del sistema, è loro interlocutore autorevole, che ha bisogno certo della loro professionalità, ma anche delle informazioni complete per comprendere il proprio stato e per scegliere le opzioni disponibili.
I nuovi Comitati di partecipazione delle Associazioni dei cittadini (attivi dal 2016) possono molto anche per facilitare i cambiamenti virtuosi elencati ma potranno ancora di più se alcuni di questi cambiamenti cominceranno autonomamente a manifestarsi. Molti dei Comitati nati dopo la DGR n. 168 hanno cominciato a lavorare con serietà, hanno censito i problemi delle Aziende o delle Aree vaste di riferimento, hanno chiesto dati alle amministrazioni, hanno esplorato le questioni della trasparenza, hanno elaborato progetti specifici e li hanno messi in cantiere (ad esempio quello sulla presa in carico e la continuità assistenziale fra ospedale e territorio). Ora i Comitati, sulla base della consapevolezza che è necessario affrontare questioni di livello interaziendale a favore dei cittadini, hanno anche intrapreso un cammino di dialogo, interazione, integrazione fra di essi: sia per avere il necessario peso con la Regione, sia perché effettivamente ci sono problemi comuni e perché programmazione e pianificazione non possono non avere un respiro più ampio di quello locale.
Da tutto ciò deriva però che gli interlocutori istituzionali non possono aspettarsi che i Comitati siano solo pallidi e pavidi intermediari fra potere e sudditi: nella loro composizione sono previsti operatori dipendenti del sistema ma anche, e in maggioranza, cittadini molti dei quali esperti e competenti e alcuni dei quali con esperienze dirette e talvolta dolorose con i servizi socio-sanitari. Se quindi dai Comitati è lecito aspettarsi riconoscimenti per le cose fatte, suggerimenti, progetti, è nell’ordine delle cose anche che da essi nascano critiche legittime per errori, ritardi, incongruenze.
Si tratta allora di avere il coraggio di instaurare un dialogo fra pari, trasparente e franco fra cittadini e amministratori: è il modo più razionale perché dalle stesse carenze emergano l’intelligenza e la progettualità per arrivare a miglioramenti possibili, nella consapevolezza che fare presto e bene ciò che davvero è necessario ai cittadini sia il modo per raggiungere anche la tanto chiacchierata “sostenibilità”.