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Oggi c’è lo sciopero generale nazionale di 24 ore dei medici e dirigenti sanitari.

Dalla locandina emergono con chiarezza sia l’elenco completo (non sono un esperto, ma così mi pare) delle sigle sindacali che aderiscono che le motivazioni dello sciopero (il sottofinanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, il mancato rinnovo del contratto, la difesa delle professioni, la lotta alla precarietà, la richiesta di nuova occupazione, la richiesta di più contratti di formazione specialistica per i giovani laureati e le scelte di politica sanitaria del governo).

Quello che non si legge nella locandina, ma si percepisce comunque con chiarezza, è invece lo stato di insofferenza verso un atteggiamento di sordità nei confronti delle richieste dei medici e delle loro rappresentanze sindacali. E questo ci riporta alle cose di casa nostra. A quell’atteggiamento del tipo “non disturbate il conducente” che assume anche nelle Marche l’amministrazione centrale rispetto alle richieste sindacali (Regione Marche, c’è posta per te! ). Lo stesso atteggiamento che, sempre nelle Marche, c’è nei confronti delle associazioni di Volontariato (A chi appartiene il sistema sanitario). E se atteggiamento e scelte del governo centrale influenzano atteggiamento e scelte del governo regionale, a loro volta queste ultime influenzano inevitabilmente atteggiamento e scelte delle direzioni aziendali.  Quindi lo sciopero nazionale è anche l’espressione di un disagio locale molto facilmente percepibile. Se si vuole percepire.

Il Sant’Anna fece (se non ricordo male nel 2015) nelle Marche un’indagine “volontaria” sul clima interno in alcune aziende sanitarie della Regione. Ne emersero dati interessanti che documentavano bene il disagio dei professionisti, ma mai divulgati nemmeno in forma aggregata. Partecipo ogni tanto come docente a corsi di formazione manageriale in cui la maggioranza dei partecipanti è formata da medici. La loro insofferenza verso le istituzioni della sanità pubblica è esplicita specie se hanno di fronte, come nel mio caso, un esterno. E loro, ovviamente, vedono le (e si riferiscono alle) istituzioni “vicine”, a partire da quelle regionali. Come si possa pensare di riuscire a cambiare la sanità “contro” o “nonostante” i professionisti che vi operano rimane per me un mistero incomprensibile. E pensare che basterebbe fare una ricerchina sul change management per capire quanto contino coinvolgimento e condivisione. E noi il cambiamento lo deliberiamo. Boh!

La vicenda dell’emanazione delle indicazioni centrali sulla riduzione delle Unità Operative complesse e semplici e della loro applicazione a livello regionale ed aziendale è talmente esemplare da meritare veramente di essere considerata una  parabola (intesa come narrazione di un fatto atto ad illustrare un insegnamento). L’insegnamento riguarda come non si affronta una questione cruciale per una professione: il riconoscimento della propria carriera e/o della possibilità di farla.

Ed ecco la (breve) narrazione. Nel 2012 un documento di un Comitato  del Ministero della  Salute fissa i parametri per la riduzione delle Unità Operative Complesse e Semplici in applicazione di un articolo del Patto per la Salute 2010-2012. E la valanga comincia a formarsi: la Regione Marche con le Delibere di Giunta 1696/2012, 551/2013, 1219/2014 fornisce ai quattro Enti la dote autorizzata di Unità Operative Complesse e Semplici. Questa dote prevede la riduzione di un quarto circa delle Unità operative complesse e di poco meno di un terzo delle semplici (i dettagli sui numeri li trascuriamo). Ormai la valanga ha preso velocità. E non si può scherzare: la riduzione è negli adempimenti (Tutto quello che avreste voluto sapere sugli adempimenti ministeriali (ma non avete mai osato chiedere), e quindi la Regione la deve garantire), e negli obiettivi regionali delle direzioni (vedi quelli 2017).

E la valanga travolge diverse carriere, favorisce pensionamenti "evitabili" e la ricerca di una diversa collocazione e contribuisce a creare un clima di sfiducia nelle istituzioni. Sì perché fare una riduzione con criteri oggettivi e trasparenti è praticamente impossibile, come pure è molto difficile arginare le pressioni di diversa natura sull’operazione. 

 

A un certo punto si è rischiato di non capire nemmeno più perché si stesse facendo tutto questo.  La relazione sullo stato degli adempimenti 2014 (pag 390) della Regione Marche dava ad esempio di fatto la riduzione già realizzata (vedi Tabella che segue), forse però solo nelle intenzioni. Cui in questo caso dovevano seguire i (dolorosi) fatti. Uno di quei casi in cui tra il dire (delle delibere regionali ) e il fare (delle azioni aziendali) c'è di mezzo tanto. 

Con le reti cliniche e l’accorpamento di una serie di funzioni  si è cercato  comunque di arrivare per una via tecnica ad una razionalizzazione degli organigrammi, ma la forzatura sui numeri e sui tempi non ha potuto evitare una montagna di scontenti. Specie per le strutture semplici e dipartimentali spesso usate come forma di riconoscimento al ruolo professionale svolto piuttosto che non come riconoscimento di una effettiva autonoma organizzativa.  Tutto questo "scombino" per un risultato economico oltretutto scarso, in quanto alla riduzione degli incarichi  non si è sempre accompagnata (anzi) una riduzione  vera dei reparti e servizi, unica misura in grado di incidere davvero sui costi del personale. Oltretutto se una avesse voglia di leggere il documento iniziale (la prima palla di neve) del Ministero si renderebbe conto di quanta insopportabile approssimazione c’è stata nella scelta dei criteri alla base di quelle percentuali di riduzione delle unità operative complesse e semplici.

E quindi anche per questo, oltre che per molto altro, i medici (perché sono soprattutto loro, inevitabilmente, i protagonisti della giornata) meritano ascolto. E non solo a Roma. Non vogliono disturbare: vogliono (lo slogan mi è piaciuto) “chiudere un giorno per non chiudere per sempre”.

 

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